Torno ad Arles dopo parecchi anni per visitare il festival di fotografia per antonomasia, quello che detta le mode ed i trend nella fotografia artistica per i mesi seguenti.
Quest’anno il tema è il Nero, quindi Arles in Black: all’inizio la fotografia fu solo in bianco e nero. Poi arrivò il colore, con grande scandalo dei puristi, che dominò per decenni. Oggi con l’avvento del digitale il bianco e nero è relegato ad un consumo nostalgico e di nicchia.
In programma 50 mostre disseminate in diverse location, alcune davvero suggestive, in una città che è un piccolo gioiello, tra l’arena di epoca romana e il Café Van Gogh. Nello spazio dedicato al pittore olandese, che qui dipinse quadri come Notte stellata o la Maison Jaune, ho visitato la mostra dedicata al fotografo di moda Guy Bordin: pazzeschi gli scatti che pubblicava negli anni 70 su Vogue!! Un gusto per la composizione e per la provocazione sul filo della denuncia sociale, pur dalle patinate pagine del magazine chic per eccellenza.
Poco distante in una chiesa sconsacrata, in un caldo pesante ed appiccicoso, la mostra “Bibi” di JHL, ossia Lartigue, che sarà anche uno dei padri nobili della fotografia, ma che con le sue foto da Saint Moritz, le gite a bordo di automobili fiammanti e la sua aria da dandy viziatello e borghese mi sta inevitabilmente antipatico.
Molto meglio invece le mostre nella zona degli Ateliers, un complesso di fabbriche abbandonate che formano una location incredibilmente suggestiva. La mente corre subito all’ex comparto Milano a Brescia, le analogie architettoniche sono impressionanti, a dimostrazione di quello che i coniugi Becher teorizzavano con la loro fotografia concettuale di strutture architettoniche sorprendentemente simili in giro per l’Europa. (A proposito, ad Arles c’è anche una piccola mostra di Bernd ed Hilla Becher, ma, seppur mi sforzi, non riesco ad eccitarmi di fronte a queste parate di gasometri, o silos, o mulini europei. Mi sembra più un interesse da entomologo…)
Eppure ricordo a Brescia una decina di anni fa, proprio in una fabbrica del Comparto Milano, una mostra di arte contemporanea, purtroppo seguita da un silenzio spesso e assordante. E le analogie tra Arles e Brescia, tra Italia e Francia, finiscono qua.
Tra strutture metalliche e vetrate del secolo scorso, che trasudavano vite di operai e prodotti costruiti ed assemblati, le due mostre che più mi sono piaciute: quella di Michel Vanden Eeckhoudt e quella di Arno Rafael Minkkinen
Il primo è un fotografo belga dell’agenzia Vu che mi ha colpito per la sua capacità di cogliere l’aspetto oscuro ed inquietante che alberga nell’apparente ordinario. Davanti alla sua Leica si materializzano immagini eleganti, misteriose, spesso con un sottile senso dello humour venato di nero. Occhi animali che ti guardano e ti inchiodano. Paiono uomini sofferenti, chiusi nella loro fissità eppure così capaci di comunicare. Mi ricordano i lavori di Giacomo Brunelli.
Arno Rafael Minkkinen è un fotografo finlandese al confine tra immagine, performance e body art. Il suo corpo flessuoso e sottile entra in relazione con l’ambiente e la natura circostanti, adattandosi e modificando. E di volta in volta è un tronco che emerge da un lago, un arco protettivo per il figlio, un supporto che spunta dal vuoto per una donna sospesa nel vuoto.
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