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Fotografia analogica vs Fotografia digitale

Ci sono alcuni temi ricorrenti nella carriera di un professionista dell’immagine, quelli che io chiamerei I turbamenti del giovane… fotografo. Sono leitmotiv che generalmente assomigliano più a passatempi e chiacchere da bar, ma personalmente sentivo il bisogno di sistematizzare questi luoghi comuni sulla fotografia, anche per fare chiarezza dentro di me

Ecco il primo:

1. Con l’avvento del digitale la fotografia è morta

Questo è un cavallo di battaglia evergreen e prima o poi lo sentirete citare sia da attempati signori con vezzose sciarpe al collo (che fanno tanto artista 😉 ) e a tracolla una Leica M6, sia da insospettabili giovani hipster con l’iPhone che spunta impertinente dalla tasca dei jeans.
Per esempio all’inizio del 2015 a Brescia ha chiuso Patera, uno storico e bravissimo stampatore analogico in bianco e nero, che ha testualmente dichiarato che per lui “la fotografia digitale semplicemente non è fotografia“.
Altri miei cari amici fotografi, vere e proprie icone bresciane, hanno l’allergia alle reflex digitali e  si sentono in imbarazzo con una macchina fotografica dotata di sensore.

Io invece ritengo che lo strumento non dovrebbe mai prevalere sul contenuto. Parafrasando Ernst Haas direi che non bisogna mai giudicare un fotografo dal tipo di macchina che usa, ma da come la usa.

Per ogni lavoro va bene un tipo di strumento: se devo fare reportage di guerra in trincea va benissimo usare digitali compatte e poco ingombranti come faceva Alex Majoli più di 10 anni fa con le Olympus C4040, macchine da 4 megapixel.
Se invece dovrò realizzare una campagna pubblicitaria che prevede delle maxi affissioni probabilmente andrò su macchine medio formato, più lente ma con file molto più ricchi di informazioni e dettaglio.
Se invece sono un artista e il mio valore  si calcola anche dal numero delle stampe numerate che faccio è probabile che mi indirizzi verso una macchina a pellicola.

Senza fissazioni e feticismi però 🙂
Confesso comunque che vedere nascere un’immagine in camera oscura è un rituale magico che ha un fascino ineguagliato.
La prima volta che mi è capitato è stato quando il fotografo, gallerista e fine stampatore Renato Corsini mi ha invitato nella sua camera oscura e mi ha mostrato la magia del vedere affiorare l’immagine sulla carta, per poi passare alla fase delle mascherature, una procedura nel suo complesso quasi alchemica.

Inoltre da qualche anno l’introduzione del formato digitale  RAW ha sparigliato ulteriormente le carte: ora le fasi di sviluppo e stampa nel digitale avvengono in modo  del tutto similare a quanto avveniva con la  pellicola. Il file RAW infatti viene considerato a tutti gli effetti un negativo digitale, non pronto per la stampa (fisicamente su carta o digitalmente su file) e deve seguire un processo di elaborazione, di raw conversion e di digital enhancing.

Già ai tempi dell’analogico la fase di sviluppo e stampa era fondamentale. Basta considerare il ruolo che alcuni stampatori come George Fevre o Jean-Yves Bregand hanno avuto su lavori di mostri sacri della fotografia come Salgado o Koudelka.

Guardate ad esempio come cambia una foto: la prima è una tsmpa “diretta”, la seconda una stampa usando la tecnica del dodge & burn, ossia schiarendo e scurendo diverse parti dell’immagine.

salgado bregand

©Sebastiao Salgado/Magnum, Brasil, 1980. Printed by Jean-Yves Bregand. Analogic “direct” print

Salgado Bregand dodge and burn

©Sebastiao Salgado/Magnum, Brasil, 1980. Printed by Jean-Yves Bregand. Dodge and burn print

Leggi il secondo post sui luoghi comuni nella fotografia >> Photoshop

 

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roberto ricca
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